Cosa sono davvero i dati? Una guida per capire l’economia dell’informazione

Viviamo in un’epoca in cui si parla di dati come se fossero materia prima, moneta, linguaggio universale. Ma siamo sicuri di sapere davvero cosa siano? Cosa rappresentano, da dove arrivano, come vengono trasformati? Cosa distingue un’informazione utile da un semplice frammento registrato? Per capire l’economia dell’informazione, serve uscire dai numeri e rientrare nella vita reale. Perché i dati, prima di tutto, siamo noi.

I dati non sono numeri: sono tracce

Ogni gesto che compiamo lascia dietro di sé un’ombra digitale. Quando camminiamo con lo smartphone in tasca, quando clicchiamo su un link, quando cerchiamo un ristorante, anche solo quando restiamo fermi davanti a una pubblicità, stiamo generando dati.

Ma un dato, in sé, non è ancora conoscenza. È solo una traccia: un’indicazione parziale, decontestualizzata, grezza. Serve qualcuno (o qualcosa) che la raccolga, la analizzi, la interpreti. Serve una relazione. E, soprattutto, serve una domanda.

Un numero senza un’intenzione è solo un rumore. Un numero letto con una domanda chiara diventa informazione. E quando quell’informazione cambia un comportamento, diventa valore.

Non esiste quindi una verità assoluta nei dati. Esiste l’uso che ne facciamo, il significato che decidiamo di attribuire a ciò che misuriamo. La temperatura esterna può dirci se mettere il cappotto o meno, ma solo se sappiamo in quale contesto ci troviamo.

Il dato nasce sempre da una scelta

Pensiamo ai dati come a qualcosa di oggettivo, neutrale. Ma non è mai così. Ogni dato esiste perché qualcuno ha deciso di misurare una certa cosa in un certo modo. Anche il silenzio, anche l’assenza di un clic, anche l’errore sono dati. Ma vengono registrati solo se rientrano in un sistema predisposto a coglierli.

Questo significa che non c’è nulla di innocente nella raccolta dati. La domanda non dovrebbe essere solo “quanti dati abbiamo?”, ma “perché questi e non altri?”.

Chi raccoglie dati ha un potere. Decide cosa diventa visibile e cosa resta escluso. Decide la mappa del reale, cioè la realtà che potremo vedere, analizzare, monetizzare. E in un mondo dove tutto è misurato, ciò che non viene misurato rischia di non esistere.

Questa asimmetria è ciò che muove oggi l’economia dell’informazione: i soggetti in grado di raccogliere, conservare e interpretare i dati hanno un vantaggio enorme su chi li genera ma non li controlla. Ed è per questo che la sovranità dei dati è diventata una delle grandi questioni del presente.

Dati grezzi, dati lavorati, dati strategici

C’è una scala silenziosa nella vita di un dato. Nasce grezzo, come un clic o un timestamp. Viene poi aggregato, categorizzato, visualizzato. Diventa dashboard, report, metrica. Ma solo quando orienta una decisione concreta, diventa strategico.

Un esempio semplice: sapere quanti utenti visitano una pagina è interessante. Ma capire perché certi contenuti funzionano e altri no, e adattare il tono o l’orario di pubblicazione in base a questo, è un uso strategico dei dati. È lì che si crea il valore.

Ma attenzione: più dati non significa automaticamente più intelligenza. Anzi, in molti casi, troppe informazioni possono paralizzare. Ci vuole filtraggio, priorità, contestualizzazione. È qui che entra in gioco la figura di chi interpreta, di chi connette i punti, di chi restituisce senso.

I dati, da soli, non raccontano nulla. Servono voci, strumenti, ipotesi. E servono anche silenzi, perché non tutto ciò che conta può essere contato.

Un nuovo analfabetismo: non saper leggere i dati

In passato, l’analfabetismo si definiva come l’incapacità di leggere e scrivere. Oggi, c’è un altro tipo di analfabetismo che si sta diffondendo: non sapere leggere i dati. Intendiamoci: non si tratta di essere esperti di analytics o di saper programmare un algoritmo. Si tratta di capire come i numeri orientano le narrazioni, i mercati, le scelte pubbliche.

Se un titolo di giornale dice “+10% di consumi” ma non specifica rispetto a cosa, quel dato è inutile. Se un grafico mostra un trend in crescita ma nasconde la scala dei valori, è fuorviante. Se un algoritmo ti propone contenuti ma non sai su quali basi, stai subendo una logica di cui non conosci le regole.

Serve allora un’educazione ai dati. Un modo per restituire potere critico alle persone. Non basta generare dati: bisogna sapere leggerli, contestualizzarli, metterli in discussione. Solo così possiamo capire chi li usa e con quali fini.

L’economia dell’informazione non è fatta solo da chi detiene gli strumenti. È fatta anche da chi li osserva, da chi non accetta di essere solo un punto su una curva.

In un tempo che sembra dominato dagli algoritmi, ricordare che i dati parlano di persone è un atto di umanità. I dati siamo noi quando scegliamo, quando sbagliamo, quando restiamo in silenzio. E imparare a riconoscerli non è solo una competenza utile. È un gesto di consapevolezza.